lunedì 22 febbraio 2010

CONVERGENZA BIPARTISAN DI RECENTI INTERVENTI DI VINCENZO VISCO E GAETANO QUAGLIARIELLO SU RIFORME UNIVERSITARIE

Vi segnalo 2 articoli che hanno creato un certo rumore, Vincenzo Visco e Gaetano Quagliariello. Cito due personaggi noti delle due parti politiche per far notare come, superata una fase di contrapposizione, le parti si stiano avvicinando.

Visco ha affrontato “La proposta Gelmini” con un tono insolito e costruttivo. “ha ottenuto da molti una valutazione «non negativa», ma anche la critica - giusta - di un approccio troppo dirigista e lesivo dell' autonomia universitaria. Ma i problemi principali derivano - a mio avviso - da ciò che nel progetto manca e cioè una visione coerente e completa di modernizzazione dell' Università italiana”.

La differenza principale tra l' Università italiana e le Università degli altri Paesi consiste nel fatto che da noi «è facile entrare» ma «difficile uscire»: tutti si iscrivono liberamente, a costi moderati, ma pochissimi si laureano nei tempi previsti e moltissimi si perdono per strada. All' estero succede il contrario. È difficile essere ammessi, ma una volta entrati gli studenti sono pressoché certi di portare a conclusione gli studi perché sono seguiti, consigliati, controllati, sostenuti giorno dopo giorno dai docenti a dal «sistema» universitario. Gli studenti devono frequentare obbligatoriamente, le università sono residenziali e diventano così comunità dove studenti e professori vivono e lavorano insieme, e dove i professori e studenti più anziani e più dotati fanno ricerca e innovano ed aggiornano gli strumenti didattici. In tale contesto è ovvio che non sono necessarie particolari norme di controllo per i professori, obblighi di tempo pieno, o di numero di ore lavorate, per il semplice motivo che i professori non hanno altra scelta che passare tutto (la maggior parte) del proprio tempo a lavorare nell' Università, e in un contesto come quello descritto sono ben contenti di farlo. Questo è il modello verso cui gradualmente dovrebbe evolvere l' Università italiana. Se non si affronta la questione in questi termini l' Università italiana resterà essenzialmente un esamificio e non diventerà mai una cosa seria. Occorrono tempo, programmazione e anche investimenti, e la verifica delle esperienze di altri Paesi (vi sono Paesi che anziché predeterminare il numero degli accessi, consentono la piena libertà di iscrizione per il primo anno, ma l' esclusione se, alla fine dell' anno non vengono superati almeno 4 o 5 esami), ma il processo va iniziato immediatamente: questo è infatti il nodo fondamentale.

Ora passo a segnalare un recente contributo del Sen. Prof. Quagliariello:

Il modello tradizionale di università aveva fra i suoi elementi fondanti la separatezza e la cooptazione: si trattava di un'istituzione che si autogovernava e autoperpetuava, e che, per questo, si teneva il più possibile al riparo da quel che accade nel mondo esterno.

Oggi quel modello non è più perseguito. All’università si richiede di interagire col mondo esterno, di seguirne se non addirittura di anticiparne i cambiamenti, oltre che di esserne sottoposta al vaglio. Insomma, all'università si chiede di “stare sul mercato”. Separatezza e cooptazione sono principi che hanno perso legittimità. E questo mutamento si riflette nelle pressioni che ogni giorno sono esercitate sul docente universitario, al quale si richiede di essere al contempo didatta, ricercatore, manager attento alle esigenze del mercato, fund raiser, eccetera. E si riflette poi, a un livello meno nobile, sulla politica di comunicazione seguita da troppi atenei, intenta a promuovere il prodotto quasi si trattasse di una saponetta Camay.

Estraggo ancora:
Bisogna che l'università modifichi il suo paradigma, cedendo a queste spinte che vengono dall'esterno? A questo quesito risponderei, al tempo stesso, sì e no. Sì perché il modello tradizionale, in primo luogo, era effettivamente in eccessiva disarmonia con il tempo presente. Esso, inoltre, consentiva che si aprissero troppe nicchie e sinecure. Sotto il manto della separatezza e della cooptazione, insomma, si celavano (e continuano a celarsi) pigrizie e clientelismi: meno forse di quanto non si pensi, ma certo in misura non irrilevante.

A mio avviso c’e’ anche una equilibrata critica alla Riforma Gelmini

La soluzione più in voga per correggere queste storture e per approdare al mitico equilibrio, sponsorizzata dalla pubblicistica e battuta da molti governi (e in ciò, lo dico con il rispetto che si deve alle tesi verso le quali si è antagonisti, le ricette del ministro Mussi rappresentano quasi un idealtipo) è stata la soluzione dirigistica: gravare gli atenei di regole, vincoli, controlli a valle, provando per questa via a rendere virtuose le università e i professori universitari.

Io ritengo questa una via sbagliata, da abbandonare. Non si può chiedere a un’istituzione di agire strategicamente e reagire alle trasformazioni dell’ambiente e al contempo negarle la libertà necessaria a queste azioni e reazioni.

Sono un sostenitore della via opposta: dare agli atenei la massima libertà possibile, controllando con rigore ma a monte, ex post, al momento del raggiungimento della vetta, il loro operato. Per far questo è necessario costruire un sistema efficace e severo di incentivi e disincentivi per chi della propria libertà faccia un uso buono o cattivo: modello – sia detto per inciso - utilizzato con successo in Gran Bretagna fin dalla fine degli anni Ottanta. In quegli anni con il professor Pombeni mi recavo a studiare ad Oxford: il tempio del modello tradizionale. Sono stato testimone diretto delle feroci reazioni suscitate nei colleghi inglesi da quel cambio di paradigma. Oggi, dopo più di vent'anni, si può dire che quelle reazioni erano ingiustificate e che quel mutamento era necessario. Ora come allora è possibile spingere, attraverso gli incentivi e disincentivi di cui sopra, per un verso gli atenei a rispondere alle richieste che provengono dall’ambiente loro circostante; per l'altro verso, a costruire all’interno degli atenei dei percorsi di eccellenza, entro i quali sia possibile produrre ragionamenti e ricerche, almeno in una certa misura, “fuori dal tempo”.



Quel che ci porta a considerare assai positivamente la base di partenza che questo provvedimento ci propone può essere sintetizzato in quattro punti:
a) L'enfasi sulla valutazione ex post, con la costruzione di un sistema di incentivi e disincentivi per atenei e singoli docenti: legati ai finanziamenti per gli atenei, e agli scatti stipendiali e alla partecipazione alle commissioni di concorso per i docenti. Questa, come s’è detto, la via maestra verso una modernizzazione del sistema universitario che ne rispetti la specificità e quel che è rimasto della tradizione;
b) la lista aperta di idoneità nazionale: sistema di controllo complessivo della qualità dei cooptati che limita ma non annulla la libertà degli atenei di cooptare chi ritengano opportuno, sotto la propria responsabilità;
c) la semplificazione della struttura interna degli atenei, con l’abolizione delle facoltà: riduzione di duplicazioni, burocratismi, organi collegiali, semplificazione delle procedure decisionali e quindi anche dell’attribuzione di responsabilità;
d) la riforma della governance degli atenei, perché accentra il potere, rendendo più chiara l’attribuzione di responsabilità, maggiore la possibilità di indirizzo dell’ateneo e minore la possibilità di gestioni caotiche e finanziariamente scriteriate come quelle che abbiamo visto negli ultimi anni.

Un esame critico come quello che si deve compiere in una fase di avvio della discussione impone però, accanto agli aspetti positivi, di segnalare anche alcuni limiti nella prospettiva di possibili correzioni. A me sembra che l’impianto della legge, nel suo complesso, presenti ancora un'impronta fondamentalmente dirigista. Non è, come si è detto, un male in sé: nell'attesa che il meccanismo di incentivi/disincentivi ex post vada a regime, il legislatore ha deciso di conservare e in qualche caso di rafforzare i vincoli ex ante per evitare che il sistema possa scivolare verso l'anarchia. Per far sì però che questa contraddizione diventi una felice ambiguità è comunque necessario riportare i vincoli a priori entro limiti compatibili.

E' necessario fare uno sforzo anche su un altro aspetto: dopo aver disciplinato minuziosamente la governance degli atenei, la legge non può tacere sulla sostanza della composizione del consiglio di amministrazione. Vale la pena chiudere il cerchio e stabilire dove debba essere il “manico” delle università, garantendo che gli atenei non vengano presi per fame da Regioni, fondazioni bancarie, poteri più o meno forti.

Infine, una volta che il secchio sia stato riparato, bisognerà pure versarci qualcosa dentro. In Francia e Germania si stanno investendo miliardi di euro nei poli di eccellenza. Noi dobbiamo recuperare il ritardo. Contemporaneamente alla riforma, dobbiamo metter mano al sistema di alta formazione sorto spontaneamente assumendo questi anni di spontaneismo come una fase di sperimentazione e riportando il meglio di quest'esperienza a fattor comune. E' l'unico modo per evitare che queste istituzioni si trasformino in nuove baronie o in dependance di questo o quell'ateneo.

Inoltre, la federazione tra atenei dev'essere precondizione per un grande programma di centri di eccellenza che eviti le sovrapposizioni e stimoli in senso positivo la concorrenza.

Questa legislatura si è inaugurata con la classe accademica intenta a chiedere soltanto più soldi e un governo ingiustamente accusato di tagliare in modo indiscriminato, per penalizzare la cultura e ceti che tradizionalmente gli sono stati ostili. Questa contrapposizione iniziale è stata superata. Bisogna dare atto al ministro Gelmini di essere riuscita a far comprendere che la riforma implicava il mettersi in discussione, ma che tale atteggiamento non era inteso né come una punizione né come un pegno da pagare. Si è così instaurato un nuovo clima, e questa proposta ne è il più evidente risultato. Se sapremo condurla in porto con cura, migliorandola ulteriormente, rafforzando la collaborazione e la comprensione reciproca, potrà veramente essere una svolta. Anche al di là del suo significato legislativo.


Io personalmente, data la nuova fase inaugurata dal Sen. Quagliariello, propongo una serie di petizioni, di cui la pertinente con il diritto allo studio è:

0) Young generation petition. Petizione per lancio progetto “Motivazione dei Giovani nelle Università”, con borse di studio per studenti svantaggiati o meritevoli sulla base di tests PISA, GMAT, e progetti per il tutoraggio "personalized learning", con incentivi sia a docenti che a studenti, basati su miglioramento in tali tests. Si chiedono altri 100 milioni. In altre parole, la mia idea e' che se i giovani si perdono, è anche perché i docenti non li seguono one-to-one e face-to-face come ad Oxford da mille anni... Si potrebbe persino aprire a progetti di studenti che fondano vere Università Online, di supporto quindi agli studenti, per ora (chissà in futuro soppianteranno le Università meno virtuose troppo lente), come quella di Marco de Rossi, www.oilproject.org, che a 19 anni è un “Rettore Bambino” e sta già aiutando 9000 studenti, iscritti da lui gratis, e magari in altre università, a conoscere i temi dell’innovazione. Lui stesso e’ studente di Bocconi, a dimostrare che le Università reali ancora servono… ma per quanto?


Bigliografia
1) V. Visco, Troppo facile entrare, difficile uscire. Ora una riforma per l' Università. I SEI PUNTI DA AFFRONTARE, Corriere della Sera, 18 febbr.2010
2) Gaetano Quagliariello, L'università che verrà, 12 febbraio 2010. convegno a Bologna "Verso una riforma: come modernizzare il sistema universitario".

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