sabato 5 giugno 2010

Commenti al libro di Graziosi e premesse per il fallimento della Riforma Gelmini, o l'ennesima illusione della meritocrazia nell'Università di massa



Il libro dello storico Graziosi (Andrea Graziosi, L’Universita’ per tutti: Riforme e crisi del sistema universitario italiano, ed. il Mulino, 2010) e’ certamente una piacevole e interessante lettura per chi vuole conoscere piu’ a fondo la storia dell’universita’ italiana, e come si sia arrivati alla attuale universalmente riconosciuta profonda crisi, con spunti interessanti di confronto di alcune realta’ europee e mondiali, e dati non tutti noti, che si completa naturalmente con un’ analisi della Riforma Gelmini attualmente in elaborazione. La storia italiana viene descritta in modo approfondito per un breve pamphlet, mentre semmai la parte relative ai confronti con le Universita’ straniere incuriosisce e meriterebbe persino maggiore approfondimento, cosiccome la discussione della Riforma Gelmini lascia in parte sorpresi rispetto alle premesse dei capitoli precedenti. Ma essendo la materia lunga e complessa, la scelta rimane personale e quindi piu’ che critiche, queste note brevi sono spunti di approfondimento.

Stupisce, a fronte della centralità delle questioni "differenziazione" delle Università, e dell'anzianità della classe docente italiana, peraltro passata in larga parte con gli ope legis degli anni '80 e poi promossa coi concorsi "locali" Berlinguer, che l'autore sia cosi' possibilista riguardo la funzionalità della Riforma Gelmini. Sul prepensionamento e la giusta paura di qualcuno di arrivare presto a 65 anni senza aver nemmeno maturato i contributi minimi, ho già scritto sul dibattito interno al PD, con il blocco turnover la proposta potrebbe essere persino un autogol dato che svuoterebbe le università senza aver alcun ricambio. Ricordo che l'anno di nascita con più alto numero di docenti in Italia è il 1947 con 2531 mentre tra i soli ordinari è il 1946, con 1014 ordinari che andrebbero in pensione l'anno prossimo in base alla proposta Meloni-Carrozza. E' chiaro che quest'ultima andrebbe articolata meglio, per es. mandando in pensione solo su richiesta come si fa nelle aziende, con incentivi, e magari segnalando chi è particolarmente non attivo. Su questo c'e' stato un interessante intervento di Ignazio Marino al convegno sulla ricerca, organizzato anche dal Forum Ricerca e Università del PD, alla sede nazionale.

"credo sarebbe opportuno valutare i circa 30.000 professori (associati e ordinari) entrati in ruolo successivamente alla legge del 1980 e chiedere il pre-pensionamento per coloro che nell'ultimo terzo di secolo non hanno prodotto nulla scientificamente. Al tempo stesso si dovrebbero ammettere nel mondo accademico altrettanti giovani pronti e felici nell'essere valutati sulla base dei loro risultati ogni 3-5 anni. Insomma, un criterio di merito più che anagrafico. "




Lo stesso avviene per il recente editoriale di Ernesto Galli della Loggia, che cita anche il testo di Graziosi tra i 3 migliori degli ultimi anni sul tema.

Il punto di vista dell’autore e’ sintetizzabile nei due commenti rispetto alle esperienze di insegnamento presso due famose universita’ private USA, Research Universities nella definizione corrente centrale nel libro, Yale (nel 1997) e Harvard (nel 2003), che certo arricchiscono il confronto con modelli funzionanti e che troppo spesso vengono tralasciati nelle discussioni italiane, per una spesso patetica pretesa di superiorita’ o diversita’, di natura decadente. Graziosi riporta l’impressione di essere passato da un ponte di terza classe (l’Universita’ di Napoli Federico II dove Egli insegna, che pure non e’ tra le piu’ piccole, anzi e’ la Universita’ con piu’ storia del Sud Italia, essendo l’unica che ha piu’ di centanni di storia) ad un ponte di prima nel passaggio a Yale, e addirittura in un bastimento che `ormai va in un’altra direzione` e che quindi con le Research Universities non ha piu’ ormai molto a che fare, per la successiva visita ad Harvard. Rimarrebbe da tener presente questi paragoni quando si pensa di trasformare una nave siffatta, in qualsiasi altra cosa. Ormai, infatti, le Universita’ italiane che si sono trasformate da Universita’ di elite a Universita’di massa, sono ormai indietro di due generazioni essendo le Universita’americane a loro volta minacciate dalle nuove Universita’asiatiche dove vengono investiti miliardi di dollari in ambiziosi programmi precisamente funzionali a raggiungere le piu’ alte posizioni delle classifiche, non a caso sviluppate anche da Universita’ asiatiche come Shangai.

Colpisce peraltro che la crisi si sia aggravata agli occhi dell’autore nello spazio cosi’ breve tra le 2 visite, a causa inevitabilmente delle Riforme Berlinguer, che hanno visto un’implementazione ben lungi da qualsiasi previsione e impostazione iniziale. In particolare, persino i bilanci delle Universita’ sono stati alterati profondamente, passando per la prima volta il capitolo del trasferimento dello stato a coprire quasi per il 90% gli stipendi del personale, le `tasse universitarie` a coprire una percentuale sempre minore dei costi, non solo con un tetto del 20% fissato negli ultimi anni, ma a volte con valori ben minori, specie al Sud, nella rincorsa frenetica e anacronistica verso una grande utopia, chiesta a gran voce ormai da tutti, dagli studenti alle famiglie, che inseguono, a suon di appelli ripetuti e continui cedimenti della qualita’, quello che e’ sempre piu’ un sogno distaccato dalla realta’, quello del pezzo di carta, la laurea, che permette l’accesso alle professioni e quindi ad un futuro certo e privilegiato.

Il processo di `degrado per allargamento` delle ns universita’ viene ricostruito dall’autore tramite le tappe fondamentali degli ultimi 100 anni, a partire da alcune scelte infauste del fascismo, anche con la Riforma Gentile, un `eroico anacronismo` degli anni 20 gia’ al tempo della sua impostazione (prevalentemente umanistica, in linea con gli studi del liceo classico) che ha profondamente pesato sui successivi lunghi decenni.

Se la trasformazione che Graziosi descrive e’ quella sotto gli occhi di tutti, risulta istruttivo pero’ certamente conoscere i numeri dell’universita’ italiana di centanni fa. Mentre infatti intorno al 1900 l’Universita’italiana era ancora tra le leaders mondiali, e vantava almeno 2 Scuole degne di Premi Nobel (e che infatti avrebbero maturato la maggior parte dei pur pochissimi Nobel italiani), quella di Levi e di Fermi, oggi tutte le classifiche ci collocano fuori dalla competizione delle Research Universities mondiali, con l’eccezione della presenza in posizioni comunque basse, di alcune realta’, da quali sembrerebbe ovvio partire per ricostruire dei tentativi di eccellenza, potenziandole nel senso di avvicinarle alle research universities appunto, specie per i numeri riguardanti la percentuale di graduate students, e in particolare aumentando di molto il numero dei dottorandi, rispetto agli studenti dei normali corsi di laurea.

L’Universita’italiana si sarebbe trasformata interamente per via dell’allargamento avvenuto senza mai essere riusciti ad impostare una sola Riforma (il riferimento in dettaglio e’ ai fallimenti delle riforme Gui, Ferrari Aggradi, Codignola, etc), ma con leggi e provvedimenti presi per urgenza, per ‘sanatorie’, megaconcorsi ed ‘ope legis’ successive ad ondate e periodi di fermo prolungato, l’uso anacronistico della ‘pianificazione e programmazione’ centralistica degli anni 70 e 80 ispirata al modello gia’ allora fallimentare sovietico, e per progressivo cedimento verso il provincialismo ed il localismo, senza preservare almeno in parte il ruolo originario di formazione delle elite.



In figura sono tracciati alcuni dati presi dal libro sul numero di docenti (qui si è voluto equiparare incaricati e assistenti ad associati e ricercatori del post 382 degli anni 80, anche se le figure precedenti erano molto piu' precarie delle successive), con i dati rapportati all'unità nel 2008. Si vede chiaramente che tutte le varie categorie hanno avuto un aumento all'incirca simile, con una certa differenza nella dinamica degli assistenti/ricercatori che sono diminuiti di peso negli anni '80 per via delle promozioni di massa ope legis, e invece curiosamene seguono come numero esattamente la dinamica degli ordinari dopo il 1990. La crescita piu' ripida comunque appare chiaramente quella della categoria degli ordinari, che, contrariamente a quanto si dice solitamente, era piu' numerosa in proporzione in passato, anche se con un ruolo infinitamente piu' importante.

Colpisce tutto sommato che le curve dell'aumento del numero di studenti e di docenti siano abbastanza simili, come dimostrato dal rapporto studenti/docenti, che non è nemmeno triplicato in 100 anni.

Cosi’, fa certo impressione vedere i dati nel passaggio da poco piu’ di 1000 ordinari e altrettanti assistenti e incaricati del 1900, a oltre 60mila docenti, dislocati su 3 fasce dalla legge 382 degli anni 80, che sano’ la posizione di quasi 30 mila tra precari e sottoinquadrati, oggi quasi paritetiche in numero dopo le ondate di concorsi Berlinguer del 1998/2003, con leggera prevalenza di quella dei ricercatori, peraltro quella con lo status piu’ discusso e in parte da sempre contestato, e che oggi e’ l’unica categoria a sembrare particolarmente attiva nella protesta, come se i problemi dell’Universita’ si esaurissero con lo status di questa categoria. Se alla contestazione del 1968 gli ordinari erano cresciuti di poco essendo ancora circa 3000, la categoria e’ quella che e’ letteralmente ‘esplosa’ a successive ondate, dai provvedimenti urgenti Malfatti del ‘73 che li quasi raddoppio’, all’aumento degli anni 80, fino allo tsunami del concorso Berlinguer, nato con premesse innovative e molto severe (commissari internazionali e obbligo di presa di servizio in Ateneo diverso da quello di partenza) e partorito in Parlamento invece completamente stravolto come `trionfo del provincialismo` o `del cretino locale`, secondo le parole di qualcuno, ovvero come `norme per l’avanzamento in carriera non competitivo del personale di ruolo all’interno delle Universita’italiane’ secondo altri, con i dati di Perotti messi in bella evidenza dall’autore a dimostrare che, come riportato da alcuni caposcuola, semplicemente negli anni 80 e poi nel concorso del 2000, le scuole migliori che pure in alcuni casi tenevano un “controllo” sulla qualita’, hanno perso tale controllo e non sono riusciti a formare tanti docenti quanti quelli che si trovavano a vincere concorsi. Ricorrente l`uso della parola `cretino` nella descrizione dei vincitori dei concorsi delle ultime due ondate e in particolare in quella degli anni ‘80 dove, secondo un caposcuola appunto, dovendo fare dei cretini, si `preferivano i propri`.

Ma la legge su cui Graziosi giustamente punta il dito con maggiore decisione e’ la 382 del 1980 che stabilizzo’ nelle categorie di associati e ricercatori senza vero concorso oltre 30 mila persone, che oggi costituiscono la `gobba` nel profilo di eta’ dei docenti italiani, costituendo circa il 50% , ormai in larghissima parte con oltre 60 anni, che cominciano ad andare in pensione nei prossimi anni in gran numero, e che essendo in parte transitati nel ruolo di ordinari, probabilmente occupano posizioni di rilevante peso all’interno dell’universita’ di oggi, un fatto da cui qualsiasi Riforma dovrebbe partire.

Graziosi giustamente ricorda che il processo di allargamento verso l’Universita’di massa e’ in parte stato salutare e necessario, richiesto peraltro da tutte le realta’ perlomeno europee rispetto alle quali si continua a stare indietro, con i vecchi vizi italiani che hanno precisi motivi, ossia quelli della eccessiva durata media dei corsi, dell’eccessivo numero di fuori corso, e degli abbandoni.

Il modello che Graziosi prende come paragone principale e’ il modello Californiano (e qualche spunto di paragone lo fa anche con l’Universita’tedesca o francese), con

• l’University of California (UC) che e’ notoriamente pubblica ma anche di primissimo livello, e che forma ca 200 mila studenti su 10 campus, permettendo pero’ l’entrata solo al migliore 12.5% degli studenti dei licei su base di test nazionale standard
• il California State University (CSU), di livello inferiore ma ancora discreto permettendo l’entrata solo al 30% dei voti piu’ alti, con stipendi piu’ bassi per i docenti e il personale, ma con circa 400 mila studenti e 23 campus
• 110 Community Colleges (CCCS) con oltre 2.5 milioni di studenti, aperta a tutti e completamente gratis per i residenti in California

Interessante notare, in eventuale parallelo con l'Università italiana che, dopo la crisi degli ultimi anni, il budget della UoC e della CSU sono stati profondamente e rapidamente rivisti, con un taglio di circa il 33% del budget, ma il governo regionale spende oltre il 3% del suo budget nel sistema educativo, e ciononostante le tasse sono quasi raddoppiate specie per i corsi dottorali, e i finanziamenti privati sono cercati con maggiore impegno (dati da Wikipedia).

L’Universita’italiana, oggi dislocata su 94 atenei (e 300 sedi) sarebbe secondo Graziosi quindi condannata ad essere, nel migliore dei casi, un CSU californiano, ma come numeri e per criterio (quello dell’assenza di selezione all’ingresso, della quasi gratuita iscrizione, e per numero di studenti), molto piu’ vicina ai CCCS. Peccato non avere dei dati precisi sul collocamento delle varie Universita’ Italiane rispetto appunto ai CSU e CCCS, dato piuttosto difficile da avere, visto che le classifiche internazionali si occupano prevalentemente delle Research Universities, in cui quasi non entriamo.

Soprattutto dalla storia dei vari tentativi di Riforma, falliti prima ancora di passare in Parlamento (Gui e Ferrari Agradi degli anni 60, Codignola del 1971) emerge il ritardo italiano ed la problematicita’ probabilmente dovuta ad un insieme di cause, tra cui quella persistente anche oggi, e in cui persino Graziosi sembra cadere, del voler trattare le universita’ tutte allo stesso modo nei processi di Riforma, e lavorando piu’ per abolizione di realta’ che pure in parte funzionavano, piuttosto che per proposizione e imitazione di modelli di successo. Un esempio importante e’ l’abolizione della libera docenza da parte di Codignola nel 1970 con l’appoggio delle sinister sull’onda di alcuni scandali alle Facolta’ di Medicina, che pure era equivalente ad un dottorato o all’abilitazione tedesca e che lascio’ un vuoto per molto piu’ del decennio che passa alla introduzione dei dottorati della 382 degli anni 80. Infatti, il vuoto e’ aggravato di molto dal fallimento dei tentativi di istituire reclutamento stabile e con concorsi seri, che porto’ infine all’entrata in massa degli anni 80, con successivo blocco fino ai concorsi Berlinguer degli anni ‘90, in cui tuttavia essendosi preferito di gran lunga promuovere gli `interni` locali, si e’ di fatto promosso gran parte dei docenti di una certa eta’ entrati proprio con le ope legis degli anni 80. In definitiva, una vera formazione di classe docente e’ mancata per quasi 30 anni.

Ne viene fuori un quadro crudamente ma realisticamente pessimista delle attuali possibilita’ di Riforma.

Da un lato, l’Universita’di massa funziona solo in parte, dal momento che i dati raccolti da Graziosi dimostrano il ritardo italiano nel risolvere alcuni problemi non solo sui fuori corso sulla durata media e sulla % di laureate nel paese, ma anche sull’ingiustizia sociale e sulla bassa redditivita’ dell’universita’ italiana come `investimento` per le famiglie (intorno al 6.5% contro un 18% delle Universita’inglesi). Ritardo che ha resistito persino alla grande occasione mancata della Riforma Berlinguer del `3+2` del ’98 che, mentre da un lato rispondeva alla urgente necessita’ di rientrare in parametri europei, non e’ stata colta appieno per cominciare a differenziare tra le Universita’in grado di offrire solo il `3` e quelle in grado di offrire anche il `2` e il dottorato, trasformandosi peraltro in un `3 e 5`, secondo alcuni autori, con i tentativi di tutti i successive ministri di centrodestra e centrosinistra di correggere il tiro, andati in parte a vuoto, e persino peggiorati nell’istituzione per es delle Universita Telematiche, in gran parte coperta da scandali delle lauree facili con riconoscimento generalizzato di crediti per esperienze lavorative soprattutto di impiegati e funzionari della PA, laureati in gran numero per facilitarne l’avanzamento in grado, in fondo parallelo a quello visto nell’Universita’. Distorsioni ci sono state anche nella creazione di un eccessivo numero di corsi di laurea, di materie, di strutture, tutte purtroppo maggiormente funzionali alla riproduzione della classe accademica, piuttosto che a presunte esigenze del Paese, poi solo in parte rientrate con successive disposizioni, come quelle comunque prevalentemente burocratiche e nemmeno troppo strette, dei garanti, dei requisiti minimi, etc.

Mi sarebbe piaciuto un maggiore approfondimento dei confronti con le crisi dei modelli sovietici, visto che, oltre agli errori generali del sistema sovietico, il cui collasso certo non permette un confronto diretto, alcuni parametri universitari potrebbero essere interessanti, cosiccome qualche confronto dei dati nelle numerose tabelle con i dati equivalenti di altri paesi europei o mondiali.

In altre parole il degrade per allargamento avvenuto in Italia e’ davvero unico nel panorama mondiale, o ci sono casi simili in altri paesi, perlomeno del terzo mondo? Siamo gli unici che hanno aperto ‘ad ondate’ per es la docenza, per incapacita’ di immaginare Riforme organiche e progressive? Certamente l’allargamento e’ avvenuto, e il solo esempio del caso californiano, o i cenni al confronto con il caso Francese, che ha mantenuto le “grandes ecoles” (in parte simili al caso italiano delle scuole normali volute da insieme in Italia e Francia da Napoleone) o il caso Tedesco con i piani di eccellenza che hanno preservato alcune realta’, sembra insufficiente alla mia curiosita’.

Come impressione personale, avendo anche io frequentato universita’ inglesi (Oxford durante il dottorato a fine degli anni 90, una Grand Ecole, il Polytechnique, in sabbatico nel 2008, e varie Universita’ USA in brevi visite), ritengo che le varie Riforme proposte in Italia e in genere fallite prima di diventare legge, e ben descritte dal Graziosi, compresa la proposta attuale Gelmini, hanno dei paragoni solo corrispondenti nelle universita’ di massa, mentre le grandi Research Universities non vengono da processi e impostazioni paragonabili, ma da lunghe tradizioni e da chiare strategie di impostazione verso l’eccellenza.

Colpisce a questo proposito l’analisi della Riforma Gelmini fatta dall’autore. Intanto, viene riconosciuta la criticita’ di un cambiamento di tale portata (se passasse sarebbe la prima riforma organica del dopoguerra) a `costo zero`, ma sembra strano che all’autore sia sfuggito l’intento del taglio del 20% del trasferimento statale, che porterebbe la spesa a prima della grande ondata dei concorsi Berlinguer, che ormai sono stati fatti, e al quale taglio della spesa non sembra corrispondere con chiarezza un piano finanziario serio di come farlo. L’unico passo concreto sembra quello della Manovra Tremonti, che ha aperto al taglio degli scatti di anzianita’ e quindi forse verso quelli solo per merito, dimostrando peraltro un preoccupante parallelo con le precedenti Riforme, non attuate e invece superate da leggi per urgenza. Si starebbe ripetendo gia’ oggi quindi la storia che tante volte si e’ vista in Italia, ancora una volta.

Sarebbe stato utile, a questo proposito, qualche sviluppo di calcolo sulla base di probabili pensionamenti dei prossimi anni, che vengono riconosciuti come critici, e che hanno motivato il blocco dei turn/over da parte del Ministro. La situazione quindi sembra confusa e simile ad un eterno transitorio che sembra preannunciare un nuovo percorso a ondate, come sembra annunciare l’introduzione del ruolo di Ricercatore a Tempo Determinato, che tanto ricorda le figure precarie che causarono le pressioni verso gli ope legis degli anni 80. In questo senso, le attuali agitazioni della categoria ‘ad esaurimento’ dei ricercatori a tempo indeterminato, nulla di buono fanno presagire riguardo al futuro e alla possibilita’ che la Riforma Gelmini sia davvero la Riforma organica auspicate dal Graziosi.

Semmai, sembra interessante ripercorrere i contenuti delle fallite Riforme Gui e Ferrari Aggradi, che nella istituzione dei dipartimenti e l’abolizione delle Facolta’ sembrano ispirare l’attuale Riforma Gelmini, ma nell’introduzione del docente unico, sembrano invece a mio avviso persino piu’ moderne ed organiche.

Graziosi insiste sulla necessita’ oggi di differenziare le universita’, invertendo la rotta rispetto a quelle che definisce, ed in parte condivido, le utopie della sinistra fino al Governo Prodi e al Ministro Berlinguer, che oggi e’ curiosamente aperto ad alcuni aspetti della Riforma Gelmini. Graziosi infatti trova il testo attuale della Riforma Gelmini poco chiaro e netto nei riguardi della differenziazione, che viene solo `annunciata` e `facilitata` da alcuni aspetti della Riforma, compresa la `valutazione`, una parola inseguita almeno da 15 anni ormai come ripercorso nel dettaglio nel libro con l’istutuzione dei nuclei di valutazione, del CIVR, cui mai ha seguito un serio seguito, a parte il caso peraltro molto discutibile del 7% meritocratico distribuito l’anno scorso a Settembre, che hanno visto, come anche notato dal Graziosi, Universita’ minori vedere posizioni di rilievo, solo per avere inseguito alcuni parametri chiaramente definiti a posteriori e di tipo eccessivamente quantitativo di flusso studentesco, come fatto negli anni passati, senza particolare riguardo alla qualita’, se non in piccola parte.
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Coerentemente, mi sarei aspettato nel capitolo sulla Riforma Gelmini qualche spunto in piu’ su come garantire da subito una differenziazione tra le universita’ italiane, e meno enfasi sui dettagli della Riforma, che proprio per la poca chiarezza potrebbe fallire miseramente o essere stravolta in Parlamento.

Interessante la discussione sui cambiamenti proposti dalla R. Gelmini sul ruolo del CdA e dei Rettori, che vengono ben inquadrati come possibili rischi di ulteriore peggioramento verso il regionalismo e l’inquinamento politico locale, come dimostrato dal cenno al caso Tedesco, di una parte del sistema non inquadrato nel piano di eccellenza tedesco.

Stupisce che la Riforma Gelmini non venga inquadrata nell’ambito della classe docente attuale, che in larga parte viene dagli ope legis degli anni 80. Come potrebbe inquadrare in una seria `valutazione` una classe docente che per quasi il 50% ha oltre 60 anni e viene da questo tipo di promozioni? Non sarebbe meglio aspettare il pensionamento, o accelerarlo in parte, o pensare prima a differenziare le universita’, magari creando nuove aggregazioni? Perche’ non valutare nuovamente i docenti prima di pensare ad una Riforma? Come si puo’ pensare di trasformare un ponte di terza classe in una nave di sola prima classe? Sembrerebbe molto curioso pensare di fare una Nazionale di calcio a partire dalla terza categoria, e allora perche’ non dirlo? Nel calcio in Italia mi pare le cose si fanno seriamente, e certo non in questo modo, dato che gli stranieri hanno invaso le squadre di calico, e vengono pagati in modo molto differenziato, cosiccome si faceva una volta anche nella Universita’ italiana di elite, come nel caso che ricorda Graziosi di Padova, che una volta aveva degli stipendi pari anche a 23 volte il salario minimo.

Ancora meglio, perche’ Graziosi non completa interessanti calcoli come quello relativo alla spesa per una famiglia italiana di mantenere un figlio agli studi, che ridimensiona la spesa della piu’ costosa (ma anche migliore) universita’ privata al mondo, Harvard, come solo il doppio di quella italiana, una volta considerati tutti i parametri, come il mantenimento di vitto e alloggio (coperto nelle tasse nel caso di Harvard), la durata effettiva degli studi, e il probabile periodo di disoccupazione che segue ormai la laurea italiana?

Se l’intento delle Riforme da fare e’ quello di garantire finalmente ai capaci e meritevoli l’accesso, tramite un Fondo al Merito (diverso pero’ da quello visto dalla Riforma Gelmini e criticato anche dal Graziosi) ad una istruzione di alta qualita’, perche’ non pensare a soluzioni piu’ semplici ed immediate, che non queste bozze di Riforma che difficilmente vedranno cambiamenti radicali?

Solo due esempi, il modello scandinavo, che permette ai migliori studenti di accedere direttamente ad Harvard, per es., oppure quello di pensare a facilitare, se proprio si deve pensare a modelli privati, l’istaurazione di sedi italiane di grandi Universita’ Private di consolidata reputazione, rispetto alla creazione o il finanziamento di nuove istituzioni come quelle del 2006, le Universita’telematiche, che tanto scandalo hanno suscitato, creando peraltro la falsa impressione che online sia necessariamente di infima qualita’, e perdendo cosi’ forse l’occasione per fornire un servizio di media qualita’ per incrementare il numero di laureati in modo sufficientemente garantito da qualita’, visto che ormai anche in USA il numero di studenti diminuisce nei college tradizionali?

Sulla necessita’ di un Test Standard Nazionale, non si puo’ non essere daccordo con l’autore, e stupirsi che non sia contemplato nelle attuali bozze di Riforma Gelmini, mentre invece faceva parte integrante di interessanti proposte di autorevoli consulenti come Roger Abravanel ex manager di McKenzie, nel testo “Meritocrazia” pubblicato proprio alla vigilia della vittoria del governo Berlusconi nel 2008.

Ma poiche’ il Test Standard Nazionale sara’ di difficile istituzione, perche’ non partire prima a livello sperimentale, solo come accesso alle nuove possibili Research Universities italiane?

Infine, criticabile sembra il poco spazio dato nel testo sul troppo ancora marginale ruolo svolto dalle donne, pare insufficiente il mero riferimento alle percentuali di donne nei vari ruoli, che vedono ora la quasi parita’ nei ruoli di ricercatore, ma solo percentuali minime nei ruoli maggiori.

In definitiva, un testo interessante, con dati in parte gia’ noti, spunti validi per approfondire le tematiche, e che speriamo contribuisca a migliorare il testo della Riforma Gelmini che, cosi’ come appare oggi, alla luce proprio della storia dell’universita’ italiana ben tracciata da Graziosi, appare destinato ad un sicuro fallimento, che potrebbe fare piu’ danni che benefici. A fronte di tanto discutere, se la Riforma passasse, sia cosi’ com’e’ sia magari ritoccata o persino stravolta dal Parlamento, si corre il serio rischio di non cogliere l’ennesima occasione per impostare un processo di cambiamento, quanto mai necessario, ma forse oggi nel momento peggiore per esser fatto, con la classe docente in gran parte vicina alla pensione, proveniente dai peggiori concorsi degli ultimi 40 anni, e con la prospettiva di non poter effettuare nuove Riforme correttive per chissa’ quanto altro tempo.

Appere auspicabile un ripensamento proprio alla luce di un piano di rinnovamento della classe docente che sia saggio ed equilibrato, e che permetta di rilanciare l’eccellenza italiana all’interno di apposite strutture da individuare, separandole dall’Universita’di massa, cui probabilmente la Riforma Gelmini si rivolge. A questo proposito, potrebbe essere utile anche pensare al ruolo dell’Istituto Italiano di Tecnologia, che richiama nella sigla l’MIT, uno dei principali istituti universitari “Research University”, il cui nome da solo suscita perplessita’. Ebbene, l’IIT viene spesso richiamato dal Ministro Gelmini come paradigma da cui l’universita’ italiana dovrebbe ripartire. Ma allora perche’ non trasformarlo appunto propriamente in universita’? MIT, che come le altre “Research Universities”, ha nel numero di dottorandi (graduate students) quasi paritari con gli undergraduate, la maggiore differenza con le universita’ di massa italiane, certo non fa solo ricerca come IIT. Non si stara’ perdendo di vista un’altra possibilita’ di riforma organica per non aver colto il ruolo di IIT appieno?

Infine, perche’ sembra tanto difficile, persino per Graziosi, suggerire il modo in cui individuare le “Research Universities” italiane, se sono cosi’ chiaramente gia’ indicate dalle classifiche internazionali? Non sembra questo gia’ un segno di mancanza di coraggio dap arte delle Riforme? Non abbiamo la Normale di Pisa che, come ricorda Graziosi, ha formato fino ad un certo punto un notevolissimo numero di docenti ordinari italiani, fino a quando le grandi ondate di promozioni non hanno reso la cosa insostenibile? Sembra quindi facile immaginare uno dei problemi italiani, che Graziosi ci ricorda anche nella legge per cui fino al 1980 si doveva essere cittadini italiani per essere docenti. Non aver aperto agli stranieri, come si continua in larga parte a fare. Inutile allora parlare di eccellenza. Qualsiasi “Research University” non si sognerebbe mai di partire da una premessa di questo tipo.




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GRAZIOSI A.

L'università per tutti

Riforme e crisi del sistema universitario italiano

Collana "Contemporanea"


pp. 184, € 13,00
978-88-15-13704-3
anno di pubblicazione 2010


in libreria dal 08/04/2010
Copertina 13704

Istituzioni gigantesche, talvolta sull'orlo del fallimento, dove è forte la tendenza alla chiusura provinciale, le università italiane figurano ormai nelle posizioni medio-basse delle graduatorie internazionali. Come si è arrivati a questa situazione e che cosa si può fare per uscirne? Questa lucida e stringente analisi ripercorre cinquant'anni di riforme e mutamenti che hanno trasformato la vecchia università di élite in una grande e indistinta università di massa, che era indubbiamente necessaria alla moderna società italiana ma che ha messo in secondo piano qualità e ricerca. Scelte politiche, interessi corporativi e buone intenzioni si sono spesso saldati inducendo un degrado progressivo della formazione universitaria. A tale situazione, sostiene l'autore, è urgente porre rimedio con una serie di cambiamenti che mirino a separare nettamente le funzioni dello studio universitario, distaccandone l'istruzione professionale superiore, differenziando gli atenei, incentivando e sostenendo le eccellenze.

Andrea Graziosi insegna Storia contemporanea nell'Università di Napoli "Federico II" ed è presidente della Sissco, la Società italiana per lo studio della storia contemporanea. Con il Mulino ha pubblicato "Guerra e rivoluzione in Europa 1905-1956" (2002), "L'Unione Sovietica in 209 citazioni" (2006) e i due volumi di storia dell'Unione Sovietica "L'Urss di Lenin e Stalin" (2007) e "L'Urss dal trionfo al degrado" (2008).

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