giovedì 27 maggio 2010

Il pensionamento a 65 anni: un semplice ritorno al passato glorioso delle nostre università prima del declino degli anni '50

Ha fatto rumore ma ha avuto vita breve, in queste settimane, la proposta di Marco Meloni del PD e della Prof.ssa Carrozza, brillante giovane direttrice della Scuola Santanna di Pisa, una delle piccole eccellenze riconosciute italiane:- abbassare l'età pensionabile a 65 anni per i docenti universitari.

Questo arriva dopo aver bocciato la proposta della maggioranza, leggo dal blog di Sylos-Labini e Zapperi che si sono molto occupati dello "Tsunami generazionale" e cui rimando per approfondimenti con un emendamento al 1441-quater, che permetteva ai professori di rimanere "fuori ruolo", pagati dall'INPS ma mantenendo tutti gli incarichi (direttori etc) per 5 anni, cioé fino a 75 anni di età. Quindi il fuori ruolo che con tanta fatica era stato abolito dal governo Prodi (cosi' come il biennio aggiuntivo) adesso sembra poter ritornare dalla finestra. Su questo emendamento il PD ha fatto opposizione, e grazie a 4 casi di coscienza della maggioranza che si sono astenuti la maggioranza è andata sotto e l'emendamento non è passato.

La proposta Carrozza-Meloni intendeva invece: "Il pensionamento a 65 anni, invece che a 70, del professore avrebbe, infatti, secondo parte degli accademici e dei politici, effetti positivi sul nostro sistema: innanzitutto aprirebbe spazi consistenti al rinnovamento generazionale e poi consentirebbe di valutare anche i professori anziani. Di quanti, all’età di 65 anni, ancora mantengono la freschezza e la vivacità sia nella ricerca sia nell’insegnamento, l’ateneo potrebbe decidere di continuare ad avvalersi mediante contratti a termine dello stesso tipo 3+3 proposti per i giovani studiosi. Una soluzione oggi prevista per i ricercatori che potrebbe adottarsi anche per i professori over 65."

Ovviamente tanto oscillare di vedute, e il fatto che in Parlamento sopratutto fino a poco fa, era ben rappresentata la categoria dei docenti universitari (specie i "baroni"), nel bene e nel male, lascia perplessi sulla cura da adottare.

Ma conviene guardare ai dati, ai commenti, e infine meglio alla storia, e di questo si occupa questa piccola nota.

Baroni in pensione a 65 anni: a Londra si fa già --- Marco Simoni spiega che alla London School of Economics i professori vanno in pensione a 65 anni, ed è meglio anche per loro.

Segnalo per es. le frasi " Quelle incombenze, ad esempio la nomina di professori e ricecatori, l’assegnazione di fondi, la gestione degli esami e degli studenti, sono cose noiose e pesanti che cozzano con la vocazione alla ricerca, alla disseminazione di risultati, all’insegnamento. Un vero luminare, finalmente in pensione, certamente potrà continuare a insegnare il suo corso con un contratto di collaborazione annuale – che arrotonderà la pensione. Sarà la stessa università a chiederglielo e probabilmente a garantirgli un ufficio di appoggio all’università. Certamente continuerà come e più di prima a scrivere libri, stare in laboratorio, e in giro per l’Italia o il mondo per offrire la propria competenza e la propria sapienza. Tuttavia, oltre a essere sgravato da tutte le incombenze amministrative, non potrà nemmeno svolgere alcune funzioni di direzione accademica, quelle che vanno intraprese con la dovuta prospettiva davanti a sé, né seguire in solitudine (senza altri colleghi più giovani) studenti di dottorato la cui ricerca è più di tutte proiettata nel futuro. Niente senato accademico, niente incarichi ufficiali e formali, solo ricerca, contributo intelletuale, e vera libertà.

È a fronte dell’evidenza di queste considerazioni che Simoni conclude che evidentemente gli ostacoli alla condivisione di questo progetto debbano essere cercati altrove.

Al di fuori di un compensibile amore per il potere di chi lo detiene, non vedo alcuna controidicazione alla pensione obbligatoria a 65 anni per professori universitari."


Si veda anche qui per altri commenti di Simoni.

Altri interventi blog di panorama che riporta il commento di un professore emerito :
Si chiama Girolamo Cotroneo, ha insegnato Storia della Filosofia all’Università di Messina per quarant’anni ed è andato in pensione pochi mesi fa a 75, grazie a una proroga biennale allora ancora valida.

L’idea del Pd? “Sbagliata, insensata e miope”. Una sentenza che troverebbe d’accordo pure Hegel, ha assicurato il professore scomodando la nottola di Minerva, assai cara al padre dell’idealismo: “L’uccello della sapienza esce sul far della sera”. Un modo dotto per dire che ”un intellettuale, un ricercatore, dà il meglio di sé invecchiando” e non da giovane.


ma anche della Stampa, Via i Baroni largo ai giovani da cui estraggo:-

I dati parlano chiaro: il 26,6% dei quasi 20 mila professori ordinari ha più di 65 anni e il 54% dei docenti supera i 50 anni, contro il 41% della Francia e il 32% della Spagna. E quindi il pensionamento a 65 anni, che in linea di principio trova concorde la Gelmini, se fosse tramutato in legge, consentirebbe di destinare le risorse all’assunzione di nuovi docenti. «Sempre che sia eliminato il blocco del turn over, decisivo perché la proposta funzioni», spiega Marco Meloni del Pd, che con Chiara Carrozza ha messo a punto il dossier. «La finalità è abbassare di 10 anni l’età media dei docenti. Una proposta a costo zero, considerando che già oggi il 100% del Fondo di finanziamento ordinario, portato da 7 a 6 miliardi con gli ultimi tagli, è utilizzato per pagare gli stipendi».

Sarà pure a costo zero, ma è vero che di questa ipotesi si discute da mesi nei blog e nelle sedi parlamentari senza che si sia approdato a nulla per le troppe resistenze dei «baroni».


Oggi che la Manovra Tremonti porta la scure sugli stipendi, mentre poche settimane fa voleva aumentare l'età pensionabile aumentando i costi dei Baroni, e non si parla di riaprire il turn-over, i "baroni" resisteranno ancora di più e forse con la guerra civile "à la Bossi" con le armi a queste proposte -- vuol dire che andrebbero davvero portate avanti!

Allego infatti la lettera di Turani di Repubblica di ieri 24 Maggio, cui Meloni e la Direttrice della Santanna hanno risposto qua e qua, e anche Marco Meloni richiamando i semplici, brutali dati, cui non vogliamo dar peso: "da noi i docenti sotto i 40 anni sono un terzo che in Germania. E gli over 50 il doppio o il triplo che in altri Paesi UE. In Europa si va in pensione a 65-67 anni."



Ma qua mi pare importante precisare le mie citazioni del bellissimo libro di Andrea Graziosi docente di Storia Contemporanea all’ Università degli Studi di Napoli e presidente della società omonima (Università per tutti: Riforme e crisi del sistema universitario italiano, Mulino, 2010, di cui si trova una bella recensione su Repubblica e può sentire anche interviste radio) che mi pare ogni unilexiano dovrebbe leggere, ecco il testo incrimminato che è oggi di attualità con la proposta Carrozza su tornare al pensionamento a 65 anni.


Dalla Introduzione:

La crisi del sistema universitario... ha subito una brusca accelerazione nella seconda metà deli anni novanta.. ha tuttavia radici profonde ed è espressione di tendenze più generali, italiane ed europee...
C'entra per es. e non poco, più che l'invecchiamento della popolazione, il brusco allungamento dell'aspettativa di vita, che ha bloccato il ricambio e lasciato al potere, specie nelle posizioni di maggiore responsabilità, persone formatesi in tempi dominati da altri problemi e perciò spesso incapaci di rendersi conto che quei problemi erano mutati, se non tramontati, e che altri avevano preso il loro posto. NOTA 1



Nota 1. Anche 50 anni fa i professori morivano tardi, e le posizioni di maggior potere si concentravano nelle mani dei più anziani, ma fino al secondo dopoguerra i professori universitari andavano in pensione a 65 anni. La collocazione fuori ruolo a 70 anni e la pensione definitiva a 75 (nel 1980 si tornò a 65 più 5 di fuori ruolo, ma tra il 1990 e 1992 si arrivò a 72 anni più 3 di fuori ruolo) furono introdotte con la legge 498/1950, quando era appena cominciato il grande balzo in avanti dell'allungamento dell'attesa di vita. Almeno in Italia il passaggio cruciale a una "premodernità" ingiusta ad una "modernità" mal gestita e mal sopportata è avvenuto inoltre proprio tra gli anni 50 e gli anni 80.



Tuttavia, errata corrige ricevuti da Graziosi:- Ho poi controllato e la nota del mio libretto era in parte errata. E' vero che nel dopoguerra l'età pensionabile fu ridotta di 5 anni, e si inventò il fuori ruolo--che prima non c'era--come compensazione. Ma non mi ero accorto che prima si andava in pensione, senza fuori ruolo a 75. Di qui la svista della nota.


Aggiungo io che altri analisti come Walter Tocci (QUALE RIFORMA PER L’UNIVERSITA’
Critica della proposta Gelmini e autocritica delle politiche di centrosinistra
) hanno recentemente messo il dito sugli errori delle riforme dagli anni 50 in poi, con le università che non sono state adeguatamente seguite dalla politica come ammesso da Andreotti in (Intervista ad De Gasperi Laterza 1977), e il balzo dall'Università di inizio 1900 dove eravamo ancora eccellenti ma avevamo 25000 studenti (e già il governo aveva tentato varie volte di "tagliare le troppe (22!) sedi locali" senza riuscirci), e quella degli anni 50 di 10 volte piu' grande fino agli attuali quasi 2 milioni di studenti, altro balzo di 10 volte, non ha corrisposto a grandi finanziamenti o grandi visioni strategiche. Si è andati avanti con logiche piuttosto consolidate, creazioni di università laddove i politici nazionali e locali riuscivano a far convergere interessi, e finanziamento delle stesse su base puramente storica. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Vanno considerati tuttavia altri aspetti, a regime, per es. il fatto che chi è entrato a 40 anni come precario, a 65 anni avrà maturato ben poco come pensione "contributiva". Per approfondimenti si veda ancora Sylos-Zapperi.

Tuttavia, l'idea di vedere il funzionamento dell'università prima degli anni 50 mi pare saggia, o perlomeno da considerare. L'università delle èlite non può essere uguale a quella di massa, abbiamo centuplicato il numero di studenti in un secolo. E' tempo di cambiare qualcosa in quello che non funziona, magari ripristinando quello che funzionava, visto che solo 100 anni fa abbiamo prodotto scuole da Premi Nobel.

mercoledì 19 maggio 2010

Lettera al direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, pubblicata 19 Maggio 2010, su Sciopero Ricercatori e Riforma Gelmini


Sullo sciopero contro il decreto GELMINI: perchè questa ossessione pro o contro i ricercatori?


(pubblicato in versione erroneamente bozza su Gazzetta del Mezzogiorno di ieri Mercoledi' 19 Maggio a pag.17 come lettera al Direttore, con il titolo:
ECCO COME FARE MERITOCRAZIA
)

Si fa un gran parlare da molti mesi di Riforma Gelmini, quasi solo dal punto di vista dei ricercatori, che questa settimana hanno dichiarato uno “sciopero” contro l’istituzione dei “ricercatori a tempo determinato”. Questo nuovo ruolo pare estremamente “precario” in teoria, e risponde alla convinzione diffusa che i posti da ricercatore in passato siano stati assegnati senza veri “concorsi” competitivi, a livello locale, gestiti in modo “baronale”, senza possibilità di correzione una volta assegnati. Oggi la categoria, già individuata dal Ministro Moratti, e che propone con forza il Ministro Gelmini (dato che gli ultimi concorsi di vecchio tipo sono ancora in atto, l’ultima tornata “Mussi”) farebbe un salto nel vuoto dopo 3+3 anni, ma nessuno ci crede. Infatti, i vecchi “ricercatori a tempo indeterminato” già in servizio sono preoccupati di risolvere il loro status giuridico e avere qualche garanzia, temendo che i nuovi a “tempo determinato” siano addirittura a loro favoriti in futuro nel passaggio al ruolo superiore di Professori associati. Ecco quindi la proposta di un passaggio ad associati in massa, con o senza aumento stipendiale, che è emerso tra le varie possibilità. La sfiducia nel sistema meritocratico italiano è tanto elevata che ci si muove contro il nuovo ruolo “precario” non tanto perché è più radicale dei sistemi più duri americani, ma solo perché si teme sia l’antecamera di un ope legis generalizzato, che induce i “vecchi” ricercatori a chiedere un “ope legis” preventivo per loro! La riforma “meritocratica” e “liberista” induce desideri a cascata di “ope legis” non meritocratici. I paradossi italiani. Confermati da uno degli emendamenti sul DDL Gelmini che abolisce la tenure (conferma) di associati e ordinari – un segnale appunto della contraddizione della Riforma Gelmini e delle vere spinte che la muovono, non certo meritocratiche. E' vero che in Italia di fatto non serviva la conferma, ma abolirla, perche' mai? Si vuole spostare tutta la fatica e la difficoltà sui giovani? Persino nel durissimo e famoso MIT la selezione durissima in ingresso fa entrare pochissimi (1 su 10 per gli studenti, e uno su varie centinaia per quanto riguarda i docenti), ma di questi mediamente resta dopo la "tenure case" quasi la metà (45% secondo recenti rilevazioni degli ultimi dieci anni)! Quindi Gelmini ci vuole forse fare raggiungere e anche doppiare l’MIT? Ricorda la storia di IIT, che si dichiara estremamente meritocratico e, anche più di MIT, che ha prevalenza di dottorandi su studenti, ha solo dottorandi. Vedremo se IIT farà, con i privati nel CdA, i risultati di MIT, che con poche migliaia di persone laureate all’anno, produce un “PIL” equivalente da parte dei suoi “alumni” che è superiore a quello dell’Italia intera – secondo rilevazioni Istituto Kauffmann.



Ma facciamo anche un quadro generale del momento. La crisi europea induce Tremonti e Brunetta a dire che presto occorrerà fare dei tagli alle pensioni e agli scatti stipendiali automatici, se tutto va bene. Se va male, ci saranno tagli e basta. In queste condizioni, ha dichiarato Brunetta, non si potranno fare le riforme meritocratiche previste. E perché non il contrario? Mi spiego meglio.

Non esiste anche un problema italiano di lassismo e poca efficienza invece dei docenti entrati da tempo? O il “concorso” da loro superato garantisce a vita una dirittura morale, un attaccamento al lavoro, uno spirito di servizio in automatico, per tutti? Difficile che il Ministro Gelmini, o la Emma Marcegaglia, lo possano credere, e risulta curioso quindi che la loro battaglia contro i “Baroni” si riduca a far entrare i giovani in modo precario, con queste mini-riforme parziali e laceranti.

Io avrei proposto questo "emendamento": istituzione di un percorso "tenure-track" esteso a tutte le categorie. A fronte di ogni chiamata di posto tuttavia, ci i sia una garanzia di budget di conferma in ruolo di almeno il 50% dei vincitori di concorso.

Questo, onde evitare che le Università non possano trattenere i migliori per esclusiva mancanza di fondi. O, al tempo stesso, che non possano "liberarsi" dei peggiori una volta entrati.

La questione potrebbe essere spinosa, dato che riguarda il famoso "posto fisso": in Italia, come nella maggior parte dei paesi, si è voluto dare il posto fisso all’università anche con una grande libertà di svolgimento del proprio lavoro e di pensiero e di indipendenza, quando si era usciti dal sistema nazi-fascista (che aveva cacciato molte menti per la loro appartenza razziale), per evitare le persecuzioni da parte dei superiori, i trasferimenti arbitrari, i licenziamenti arbitrari. Questo si fa anche in USA, dove si preferisce correre il rischio che qualche furbo riesca a prendere la conferma senza meritarla ("Tenure") e poi non far più nulla, piuttosto che impedire che qualche pensatore davvero illuminato, mosso da un’idea del tutto geniale, non possa lavorare per 40 anni da solo senza nessun tipo di pressione esterna, e magari portare ad una scoperta da premio Nobel. Si sa infatti che le scoperte migliori seguono la regola di Pareto, ossia l'80% è fatta dal 20% di individui (anzi per i Premi Nobel, il fronte sarà sicuramente più netto). Se ad MIT arrivassero 2 Einstein nello stesso Dipartimento, magari non sarebbero confermati entrambi! E senza scandalo. Noi ci culliamo di fare grande demagogia e di fare entrare tutti e solo i migliori sulla carta, ma poi in realtà quanti Einstein entrano?

Ma se qualcuno ha un comportamento particolarmente grave, in USA esiste la “revocation”. Ebbene, non si tratta di una cosa tanto rara, se uno studio del 7/12/1994 del The Chronicle of Higher Education riporta 50 licenziamenti ogni anno in USA, e un altro del Wall Street Journal del 10 Gennaio 2005 conferma il dato di 50 -75 docenti all’anno. Su un totale di ca.280mila, si tratta del 0.027%. Per la classe dei ca.60mila docenti italiani, dovrebbe corrispondere a 16 docenti licenziati all’anno, non tanto da risparmiare ma almeno un esempio!

La Riforma Gelmini non porta ad un quadro nuovo nell’Università, ma solo lacerazioni tra categorie, e voglia di “ope legis” a catena, in aperto contrasto con la logica “meritocratica”, e in stridente contrasto persino con gli emendamenti che la stessa Maggioranza sta proponendo. Nessuno crede davvero alla meritocrazia, e si stimolano cosi’ rivolte, scioperi, richieste di ope legis.

Questo disordine per mancanza di visione di insieme va di pari passo con il nuovo sistema di valutazione delle Università (VQR?). Non è esso in fatti in aperta contraddizione con l’emendamento della Lega, che introduce un “premio” secondo un nuovo criterio estemporaneo, per 1.5% del Fondo FFO delle Università. Quindi mentre si regolarizza, si fa un ennesimo strappo, qualcuno dice a grande vantaggio delle Università del Nord. Un gran parlare, ma si procede così da 50 anni. Addirittura, si può anche pensare che tutte le Riforme dei concorsi non hanno creato che situazioni transitorie, che si sono risolte nella “paura” che ogni volta fosse “l’ultima utile” per far passare i mediocri allievi, tanto poi i “bravi” passeranno alla tornata con le nuove regole “meritocratiche”. Salvo poi avere altre ondate di riforme, e così via cantando.

Io proporrei passi graduali, e omogenei per tutte le categorie. Quindi, di passare dal 100% di “confermati” che c’e’ ora, non allo 0% che chiede la Gelmini per i ricercatori a tempo determinato (e solo per loro), passaggio estremo e su cui nessuno crede. Chiedo un passaggio al 50%. Sembra logico no? Un primo passo per evitare licenziamenti o tagli di stipendi di massa, e una vera prima, forse, scelta meritocratica.

D'altronde, a cosa servono i ricercatori a tempo determinato? Sono dei Post-Doc a tutti gli effetti, di cui gli USA sono pieni, specie in alcune materie. Evidentemente in Italia il posto di Assegnista di Ricerca o di Post-dottorando non vengono visti bene, quindi la soluzione cui si pensa è cambiare il nome! Che si faccia una tenure sola in una carriera è ragionevole pensarlo, e in questo caso la conferma si potrebbe abolire solo nei passaggi successivi di carriera. Non pensavo certo ad un sistema sbarrato al 50% per tre volte nella carriera, ossia da ricercatore, da associato e da ordinario. Questo è fuori discussione. Però ben venga un inizio di carriera da associato o da ordinario direttamente, così ogni tanto prendiamo qualcuno da fuori.

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Cordiali Saluti, Prof. Ing. Michele Ciavarella
Politecnico di Bari
delegato del Rettore al CNR
tel+390805962811 fax+390805962777
Editor, ITALIAN SCIENCE DEBATE,www.sciencedebate.it,
Associate Editor, Ferrari MilleChili Journal, http://imechanica.org/node/7878
http://poliba.academia.edu/micheleciavarella
http://www.youtube.com/user/RettoreVirtuoso

giovedì 13 maggio 2010

I miei corsi su YouTube - qualche esempio da Mechanics of Materials - Intro alla Fatica, Intagli e legge di Paris di propagazione cricche

I miei studenti hanno creato dei video, sia trovando del materiale da siti di colleghi universitari italiani, per es dal collega Demelio della I facoltà di PoliBA, sia dal grande Professore e amico Massimo Rossetto del PoliTO (in questo caso li ho sconsigliati di pubblicarli se non con autorizzazione del prof. Rossetto), e sia creando tutta una serie di presentazioni da Wikipedia, Imechanica.org, Youtube, e tutto il materiale, spesso da me segnalato, ma piu' spesso da loro stessi trovato.

Alcuni esempi:

Chiavette e Linguette (Simone Legari)


Sulla legge di Paris e teorie di Barenblatt sulle leggi di scala (con colleghi Paggi e Carpinteri di PoliTO)








intervista Tv -- studio 100 su Riforma Gelmini,chiusura sedi periferiche, Politecnico di Bari, corsi Facebook